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domenica 4 gennaio 2009

L'eclissi e il dirupo III

A tutti coloro che leggeranno il racconto, e anche a chi non lo farà, un augurio speciale per un propizio e felice 2009!!!!!



Terza parte

La notte dormivamo ancora insieme.
Lui sul suo lato sempre un po’ più scavato e caldo rispetto al mio. Sempre un po’ meno odoroso di pigiama e dopobarba; aveva preso l’abitudine di venire a letto con la stessa camicia indossata per uscire, aveva perso quella di curare il suo viso, che la barba lunga faceva apparire così magro e lacero.
Anch’io sentivo una coltre di sporcizia indelebile sulla pelle, unico familiare legame che mi lasciasse addosso l’odore di Gap, come un ponte sull’abisso che ormai ci separava, a letto e nella vita.
Ma quello strato di sporcizia era anche la prova tangibile della mia incapacità di aiutarlo e mi dimostrava quanto non fossi in grado di fare qualcosa per lui, nulla che potesse essere visibile, nulla che potesse apprezzare; nulla che non fosse simile all’evaporare di un mezzo respiro nel buio della notte. I germi purulenti avevano scavato fossati profondi fra le dune rase al suolo da un vento impazzito e malefico, e il mio cuore assomigliava forse ad una luna spenta ricoperta da crateri senza nome.
“Andiamo!” mi disse il mattino dopo.
Splendeva il sole e una sensazione di tepore mi colse perché la mia pelle abituata al gelo della casa, al gelo dei molti giorni e delle molte notti lontane dal contatto con le sue mani si era come inaridita e indurita.
Uscimmo e ci mettemmo in macchina. Io salii dietro perché mi piaceva; amavo guardare attraverso il lunotto posteriore la successione continua di alberi-persone-case-automobili ferme-cani al guinzaglio-qualche uccello fuori rotta-giornali abbandonati per terra, e sentirmi superiore a tutto; viaggiamo ad una velocità maggiore, spediti rispetto al mondo intorno. Preferivo stare dietro anche per non sostenere il carico di silenzio che impregnava la parte anteriore, l’odore di fumo, il contenitore in cui si ammucchiavano mozziconi, la radio spenta, i finestrini sigillati, l’odore dolciastro, aspro, penetrante come uno spillo dell’alberello giallo ciondolante, e il suo silenzio altrettanto pungente.
Quando arrivammo a casa del Vecchio il mio umore era già cambiato.
Costui era sempre gentile con me, quasi solidale, come se riuscisse a provare ciò che provavo io e ad elaborarlo nella sua mente piena di ricordi, di storie, sensazioni molte delle quali tutte uguali ma rese differenti dalla distanza temporale; altre diverse ma ormai irriconoscibili nella nebulosa indistinta del passato.
Il volto del Vecchio mi ricordava il tronco di un albero su cui una giovane mano avesse intarsiato lettere e disegni confusi sotto l’ombra del muschio che andava crescendo col trascorrere degli anni. La sua mano si posava a volte sulla mia testa e mi rivolgeva parole con la sua voce calda e tremolante: “So che anche tu stai soffrendo, anche se non lo dici.” Come facesse a saperlo continuo a chiedermelo, perché, per quanto possibile, cercavo di comportarmi come al solito e provai un senso di sdrucciolamento, perchè all’interno del mio cuore si era formato un lungo dirupo di pietre lisce e io vi stavo cadendo dentro scivolando.
Quando parlava con Gap il suo tono era quello di chi conosce molte cose.

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