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martedì 23 dicembre 2008

L'eclissi e il dirupo II


Ecco una seconda parte del racconto.
Sebbene in molti mi abbiano chiesto di pubblicarlo tutto in una sola volta non mi è possibile, trattandosi di 10 pagg, il che riempirebbe troppo spazio nel blog.
Ehi, aspetto presto i vostri giudizi,commenti, opinioni e chi più ne ha più ne metta...



La sera continuavamo a cenare insieme ma sempre in silenzio e spesso, al rumore delle posate contro il piatto, del vino sciabordante nel bicchiere, della caffettiera che fischiava sul fuoco azzurrognolo, si mescolava quello gaio, improvviso e talmente fuori luogo fra quelle pareti immerse in un crepuscolo perenne, del telefonino che illuminandosi faceva vibrare il tavolo e oscillare l’orlo della tovaglia. Gap lo afferrava, il più delle volte facendolo smettere di suonare.
Altre volte rispondeva: “Pronto?” oppure “Sì!” oppure “Dimmi!” oppure “Ciao”; di tanto in tanto parlando giocherellava con la forchetta, o si alzava in piedi e cominciava a togliere la roba dal tavolo, o si passava concitato la mano nei capelli attorcigliandoli sul dito; a volte passeggiava per la stanza a ritmo rapido percorrendo centinaia di volte la cucina e girando su se stesso e maggiore era il numero di giri quanto più lunga la telefonata ed erano tanto più veloci quanto più si agitava e più correva più la sua voce aumentava di volume…
In una di quelle sere rovesciai per errore l’acqua sul pavimento. Avvertivo dalla pesantezza dell’aria, dal suo modo lento e fremente di masticare, che qualcosa non andava ancora e lo rendeva inquieto, nervoso, e avrei voluto che mi parlasse.
Qualche anno prima si era presentato a casa su di giri, cantando e saltellando: “Oggi è stato un giorno speciale”, e poi avevamo bevuto insieme. Non avevo mai assaggiato il vino, ma Gap, già un po’ brillo, insisteva perché ne assaggiassi un goccio; mi pervase una sorta di bizzarro stordimento, per non parlare del singhiozzo durante la notte. Avrei voluto riprovare quell’emozione; avrei voluto che mi confidasse i suoi pensieri. L’acqua rovesciata sul pavimento era l’ultima delle cose ragionevoli che avrei potuto fare e la pozza che si formò, dai contorni tondeggianti e rialzati che andavano espandendosi mutando forma, da cerchio a uovo fino a chioma d’albero e arrestandosi infine su un enorme pesce trasparente steso sulle mattonelle, doveva aver scosso qualcuno dei suoi nervi sensibili.
Urlava, come quando al telefono gli sentii dire: “Non mi interessa. Non c’è niente che possano fare per lei…l’hanno praticamente uccisa. Lo sapevo che sarebbe finita così…” ma questa volta non piangeva, e non riuscivo a distinguere le sue parole mescolate al rumore degli oggetti che colpiva e rovesciava giù dai ripiani.
Raccolse alcuni fogli assorbenti e li adagiò sul pesce d’acqua: i due elementi si fusero immediatamente e i fogli bianchi e morbidi furono di colpo grigi e sottili aderendo al colore ferrigno del linoleum bagnato.
Li lasciò lì e continuò a strepitare, verso di me ma non solo. Forse verso tutto ciò che lo circondava. Raccolse un bicchiere dal tavolo: “E togliti dai piedi” mi sbraitò contro e gettò quel pezzo di vetro cilindrico proprio nella mia direzione: il cilindro si frantumò in pezzettini lucenti che andarono a rimbalzare sull’intreccio di fogli e pavimento. Quel frastuono argentino mi spaventò e cominciai a tremare in attesa che Gap mi abbracciasse e mi parlasse con dolcezza e me ne rimasi lì ad aspettare che la luce del sole facesse evaporare il pesce, che la carta assorbente si indurisse asciugandosi… e piansi, con un gemito sommesso mai udito.
Piansi a lungo attendendo che qualcosa cambiasse. Qualcosa, eccetto i pezzetti di vetro che a differenza dell’acqua e della carta erano immutabili e sarebbero rimasti, a patto di non essere spazzati via.

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