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giovedì 8 gennaio 2009

L'eclissi e il dirupo IV

Ecco la quarta, ma non ultima, parte.

Ho imparato a distinguere le persone dai capelli bianchi in due categorie: alcuni osservano il mondo con l’aria di giudicarlo e rimproverarlo, consci che mai nessuno potrà provare ciò che hanno provato loro e lottare come loro sono stati capaci di fare; altri lo osservano invece con l’interesse di chi intravede cambiamenti che non può concepire e rielaborare e si limita a scrutarlo dal di fuori, con compiacenza e riverenza verso il futuro.
Il Vecchio apparteneva al secondo tipo e parlava con l’aria di chi insegna ma comprende: “Non piangere…”
“Non riesco ad accettare l’idea di averla persa, nonno…tutto adesso mi sembra inutile; tutto mi sembra insipido e sporco…”
“Devi farti forza. Io stesso cerco di darti forza.”
“Lei per me era così importante…forse neanch’io avevo capito quanto…” Gap guardava fuori dalla finestra dove alcune gocce di pioggia si posavano in un punto e poi veloci o lente ricamavano scie acquatiche lungo il vetro scivolando giu.
“Lo so; dentro di me so che devo superare questo momento, ma devo farlo da solo. Le parole di nessuno possono aiutarmi.”
La mano del Vecchio si posò su quella di Gap emergendo da sotto la coperta lisa e strapazzata da quelle gambe anchilosate che si portavano dietro l’odore di un antico armadio tarlato chiuso da anni e colmo dei vestiti di tre generazioni.
“Hai ragione. Le parole per ora non hanno alcuna importanza. Ma la avranno quando avrai maturato la certezza di potercela fare…quando ricomincerai a vivere e rivedrai un barlume di speranza riuscirai a ripensare con un altro spirito a ciò che ti dico…”; la voce del Vecchio continuava a fluire come un fiume tiepido lungo quel pomeriggio sornione e quando me ne avvidi calava già la sera e avevamo ripreso la strada del ritorno. L’atmosfera non era cambiata; sebbene il mio cuore fosse più leggero, come tutte le volte che rivedevo il Vecchio e sentivo il suo afflato morbido verso di me, la stessa cosa non era accaduta a Gap. In auto questa volta provai a sedermi di fianco a lui che mormorava fra i denti sottili parole di rabbia, ma non ci fece caso, e mi limitai a fissare il tappetino bagnato di pioggia.

Fu come un mese di gelo durante il quale ci si sveglia tutti i giorni con l’augurio in fondo al cuore che sia caduta la neve; si aprono gli occhi, si esala un freddo respiro da sotto la coperta calda, si tendono accuratamente le orecchie per udire fino in fondo il silenzio ovattato che pervade l’aria; ci si mette a sedere sul letto infilando le pantofole pelose e tiepide; ci si avvicina alla finestra con cautela, poca convinzione e molta speranza; una speranza che diventa sempre più evanescente fino a consumarsi del tutto man mano che la tendina seguita dal vetro si avvicinano e infine si guarda fuori fugacemente, quasi vergognandosi di quel pensiero sciocco…e lei è lì. Il silenzio bianco e la luce invadono gli occhi e si adagiano come una sciarpa di piacere attorno al capo; allora il caffè è più buono del solito; la radio trasmette solo splendide canzoni; la casa è bella e pulita; i vestiti profumati.
Ebbi la stessa sensazione durante quel periodo, in cui attendevo ad ogni istante il suo sorriso per me come una nevicata al mattino.
Che non venne mai.

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